“A mani nude” di Marco Pierini

Claudio Maccari ha scelto di raccontarsi, di ripercorrere in questa occasione le tappe fondamentali – tanto umane quanto professionali – del suo cammino nel territorio dell’arte contemporanea. Incedere mai segnato da una cadenza regolare o dall’anelito verso una meta prefissata da raggiungere, viceversa contraddistinto da un passo continuamente diverso, con accelerazioni improvvise e soste inaspettate, e dalla predilezione per itinerari sconsigliati dalle ‘guide ufficiali’. Inclinazione spontanea, dunque, quella dell’artista, per la scoperta, per il percorso e non per l’approdo, per il processo e non per l’esito finale, per la linea di confine, spazio dal quale tentare sortite, incursioni, fughe, rimpatri. Vitalità, come dimostra il corpus delle opere – soprattutto se ricompreso in un unico sguardo dall’alto, a volo d’uccello – che non è indice di inquietudine, piuttosto di irrequietezza, di curiosità, di piena coscienza di come ogni traguardo sia incerto e provvisorio, fino al punto da poterlo lasciare definitivamente alle spalle per avviarsi su strade nuove e sconosciute.

Il registro autobiografico qui adottato da Claudio Maccari invita anche chi scrive a conformarsi a tale schietta apertura, conseguenza peraltro naturale di una frequentazione amicale lunga più di vent’anni.

Non ricordo, dunque, se avevo già sentito parlare di lui o meno quando vidi la sua prima mostra alla Galleria Bagnai in via del Porrione a Siena nella tarda primavera del 1993, ma rammento bene lo stupore con il quale quel pomeriggio mi accostai alle rose del Macca (al tempo aveva rinunciato all’ultima sillaba del cognome). Pregiudizialmente diffidente sulla pittura, soprattutto dopo l’euforia degli anni Ottanta che mi appariva – e tuttora mi appare – sovradimensionata rispetto alla reale portata del fenomeno e alla qualità delle opere allora prodotte, mi si presentò di fronte una maniera franca, spontanea, coraggiosa (a partire dal soggetto) di affrontare la tela senza ricorrere a schermi di protezione citazionisti, neoavanguardisti, naive. Le grandi rose, però, durarono poco. E breve sarebbe stata di qui in avanti la stagione di ogni strada battuta da Claudio, pronto ad abbandonare qualunque sentiero se un altro sembrava promettere orizzonti nuovi e sconosciuti. Non bastò più la pittura, dunque, ma fu la volta della scultura, in legno, in bronzo, in terracotta, in marmo, e dell’installazione. Per ogni nuovo cimento c’era quindi da sperimentare procedure e tecniche mai affrontate prima o da riprenderle in mano dopo qualche tempo, si doveva riconsiderare la ‘resistenza’ dei materiali e il metodo migliore di lavorarli, studiare il modo più adatto per esporre le opere e realizzare – oppure semplicemente ‘trovare’ – i loro supporti e i loro complementi, inventarsi un titolo che introducesse o ribadisse la vena ironica da sempre dominante nella poetica di Claudio. Fecero così la loro comparsa l’Invasato, il Prosciutto di Marma e il Marmigiano Reggiano, Pecus non olet, dipinto di vaste dimensioni non concepito per la parete ma come elemento tridimensionale, Etc. Homo, grande installazione composta di sedici vasi in terracotta e Scalata al vertice, con i suoi omini che si arrampicano su esili grattacieli lignei, le cui forme semplificate preannunciano l’interesse di Maccari per il design. Esemplare, tra le opere della seconda metà degli anni Novanta, appare Castle, costruzione eretta con esilissime carte da gioco in marmo serigrafate e dipinte, nella quale il materiale, per propria natura, da una parte contraddice la caducità da luogo comune della struttura, dall’altra – vista la sottigliezza del taglio – la ribadisce pienamente[1].

Tra le prime opere di questa fase di superamento della pittura si colloca anche Finestre italiane, la cui portata si rivela – retrospettivamente – cruciale in vista dell’evoluzione del cammino artistico di Claudio Maccari[2]. Costituita da un letto a baldacchino in legno sui cui montanti si aprono finestre a tutto sesto d’impronta metafisica da dove si affacciano ‘omini’ che anticipano gli arrampicatori di Scalata al vertice, Finestre italiane appare coerente per stile, intenzione, ironia, con i lavori coevi. Se ne distacca tuttavia per un particolare non di poco conto: oltre ad essere una scultura, difatti, è in tutto e per tutto un oggetto d’uso, il primo realizzato da Maccari, e forse l’inconsapevole scintilla per l’ulteriore svolta giunta proprio agli esordi del decennio successivo.

La produzione di accessori per l’abbigliamento, stoviglie in ceramica, vasellame a cui dette inizio nel nuovo studio di Monteroni d’Arbia fu il primo salto di Claudio oltre il confine del ‘sistema dell’arte contemporanea’, scavalcamento che implicitamente poneva domande molto serie, dirette, alla quali forse non si prestò allora sufficiente attenzione. Claudio, con una semplice virata di rotta, rimetteva in discussione la natura stessa del suo fare arte, il proprio ruolo nella società, la legittimità di far convivere – e considerare alla medesima stregua – il lavoro artigianale con quello artistico. E non lo faceva tanto come ‘operazione artistica’, mosso da tardi rigurgiti duchampiani o concettuali, ma come esigenza propria, necessità, conseguenza obbligata di uno slancio libertario, educatamente anticonformista, che richiedeva da una parte completa autonomia all’interno del ciclo produttivo, dall’altra un contatto non mediato con il committente o, semplicemente, l’acquirente, senza distinguere gerarchicamente tra collezionista e passante occasionale.

Ricordo di questo periodo straordinarie pochette in legno e pelle e borse più grandi come i modelli 60° e Obi, oppure altre prodotte in pezzi limitatissimi: Regina, Demoiselle magnolia bianca, Gotica, indossate da stelle del cinema e apparse sulla stampa nazionale (ciò nonostante mai confezionate serialmente). Altrettanto felice fu la produzione di tazze, tazzine, piatti, vassoi, vasi e altri oggetti in ceramica che in alcuni casi sconfinavano nella scultura vera e propria fino a limitare o impedire le possibilità di utilizzo. Derivano da qui le raffinatissime scatole per il pique-nique (Amor costante, Yoko rossa) o per il tè (Dragonfly), set dall’estetica quasi demodé che dichiarano esplicitamente una filosofia di vita, suggeriscono complicità con coloro che si accingono a usarle, dopo aver vinto l’istintivo impulso a limitarsi alla pura contemplazione. Appaiono opportune, per comprendere appieno questo momento di Maccari, le parole di Henri Focillon nell’Elogio della mano con le quali delinea mirabilmente la figura dell’artista/artefice: “Per lui la natura è sempre un ricettacolo di segreti e di meraviglie. È con le sue mani nude, sempre, che cerca di appropriarsene per farli entrare nel proprio gioco. È l’eterno ritorno di un passato formidabile, la riscoperta, senza ripetitività, dell’ascia, della ruota, del tornio del vasaio. Nell’atelier dell’artista sono scritti dappertutto i tentativi, le esperienze, le divinazioni della mano, le memorie secolari di una razza umana che non ha dimenticato il privilegio della manipolazione”[3].

Questa felicità della creazione non esclude mai (e come potrebbe?) il lato prettamente artistico del lavoro, anzi proprio nel 2003 Maccari allestisce due personali: Doppio verso, con Agata Chiusano, alle Scuderie di Palazzo Aldobrandini a Frascati e Repertorio al Mulino delle Macine di Monteroni d’Arbia. Accoglie inoltre per tutto il primo decennio degli anni Duemila l’invito a partecipare a collettive[4] e non cessa di realizzare, con tecniche le più diverse, nuove opere, tra le quali vanno almeno ricordate la grande scultura in legno e pigmenti intitolata O di qua o di là, collocata nel 2005 nelle Stanze della Memoria di Siena, emblematica nella sua schietta, ma monumentale, semplicità e Carne rossa, installazione preparata per mostra Flesh for Fantasy agli ex macelli di Prato. Quest’ultima riprende la tematica giocosa delle opere degli anni Novanta. Le bistecche in bronzo che la compongono, infatti, tutte quante alloggiate nella vaschetta di polistirolo e avvolte dal cellophane, mostrano un bel colore rosso che allude alla loro freschezza; tuttavia, a una visione ravvicinata, si possono scorgere piccole falci e martello tracciate sulla superficie con il pennarello, ed ecco che il titolo – apparentemente inequivocabile, nella sua tautologica corrispondenza con il soggetto – si arricchisce di un significato ironico e straniante.

Nel corso degli anni, anche nei momenti in cui il ‘sacro fuoco’ del lavoro si è diradato, si è fatta più intensa in Maccari l’esigenza di condividere con gli altri l’esperienza della produzione, dell’allestimento, del godimento dell’opera d’arte. Spazio deputato, sebbene non l’unico, di questa modalità d’azione dalla forte impronta relazionale è stata l’avventura di Madeinfilandia, all’interno della quale Claudio e Isabella hanno introdotto note sorprendenti, non convenzionali, colorate. E si rischierebbe di fraintendere lo spirito del progetto e quello della loro partecipazione se non si comprendesse come la produzione artistica, la condivisione delle fasi organizzative dall’ideazione alla realizzazione, il senso di comunità siano tutti elementi di un’opera unica, collettiva, in continua trasformazione, al cui costituirsi appaiono necessari tanto i singoli lavori degli artisti coinvolti quanto i turni in cucina o le conversazioni attorno a una bottiglia di vino.

Negli ultimi anni Claudio Maccari ha sentito di nuovo l’urgenza di dedicarsi alla pittura, affrontandola con una libertà nuova, un’immediatezza e una velocità d’esecuzione mai sperimentate prima. Si amplifica in questa fase il senso di provvisorietà della pittura, non solo il gusto ma quasi l’imprescindibilità del ‘non finito’, una precarietà che si rispecchia fedelmente nel titolo – contrariamente al solito privo di accenti ironici – ora assegnato alla serie dei dipinti: Provisional. Cornici vecchie più che antiche, talvolta esuberanti nella loro decorazione, racchiudono superfici materiche entro i cui confini qualunque presenza è ammessa, qualsiasi gesto accolto, ogni tinta lecita, pur nella prevalenza del bianco che non risparmia bordi e cornice. Non di rado a fingere un po’ d’ordine, a suggerire una misura, intervengono, applicati sulla tela, quei regoli colorati con i quali i bambini imparano a contare.

Più di recente la marea impetuosa del dipingere sembra aver conosciuto un riflusso e l’immagine si è asciugata, gli elementi si sono ridotti nella varietà anche se tendono a ripetersi, sebbene non con regolarità. Di primo acchito quasi potremmo essere tentati di riconoscervi un clima estetizzante prossimo al pattern painting, ma non è proprio così perché l’ironia di Claudio riesce a interrompere le scansioni della decorazione con una macchia improvvisa di colore, oppure introducendo un ritmo spezzato, un elemento difforme e apparentemente incongruente.

Il ritorno alla pittura, che perdura ormai da qualche anno, rappresenta forse la definitiva accettazione da parte di Claudio Maccari della sua condizione d’artista. Stare sul crinale, adesso, non appare più tanto uno stratagemma per fuggire quando manca l’aria, ma come il proprio modo per rivendicare uno spazio d’azione all’interno del mondo dell’arte. Spazio dove la libertà, l’autonomia, l’indipendenza, dominano ora con più serenità, spazio dove è ancora possibile prendersi dei rischi, preferire l’azzardo al calcolo, sperimentare ogni giorno con gioia di non aver “dimenticato il privilegio della manipolazione”.

[1] Tutte queste opere furono presentate alla personale Di cotto e di crudo. Nove opere di Claudio Maccari allestita tra il dicembre del 1998 e il gennaio dell’anno successivo 1999 al Palazzo Chigi di San Quirico d’Orcia. Il catalogo, pubblicato da Maschietto & Musolino, nel singolare formato di agenda dell’anno 1999, era introdotto dal testo Un gioco senza posta in gioco di Omar Calabrese.
[2] Finestre italiane è anche il titolo della mostra personale, e del relativo catalogo stampato a Firenze da Maschietto & Musolino, tenutasi nel 1995 all’ex convento di S. Agostino di Pietrasanta.
[3] Henri Focillon, Elogio della mano, in Id., Vita delle forme seguito da Elogio della mano, Einaudi, Torino 1990, p. 117.
[4] Tra queste Sumptuous (Prato, Officina Giovani. Cantieri Culturali Ex Macelli, 14 dicembre 2002-29 gennaio 2003); Flesh For Fantasy (Prato, Officina Giovani. Cantieri Culturali Ex Macelli, 12 dicembre 2003-31 gennaio 2004); Ipermercati dell’arte (Siena, Magazzini del Sale, Santa Maria della Scala, Palazzo delle Papesse, 9 ottobre 2004-9 gennaio 2005). Si vedano i relativi cataloghi: Sumptuous, a cura di Lorenzo Fusi e Lucia Minunno, Gli Ori, Siena-Prato 2002; Flesh For Fantasy, a cura di Lorenzo Fusi e Marco Pierini, Gli Ori, Siena-Prato 2004; Ipermercati dell’arte, a cura di Omar Calabrese, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004.